Venezia è la città più fotografata al mondo, quindi Venezia è ormai infotografabile. Da anni non riesco più a vedere foto di Venezia che mi piacciano e nemmeno io ne faccio, o pochissime. Perché Venezia è stata fotograficamente esplorata e sfruttata fino al midollo.
Lo pensavo fino a che non ho sfogliato il libro Dream of Venice — Architecture: il secondo volume di una collezione curata da JoAnn Locktov e rivolta a un pubblico internazionale di amanti di questa città. Ai testi di diversi architetti e intellettuali fra cui Tadao Ando, Mario Botta, Michele De Lucchi e Massimiliano Fuksas si accompagnano le foto, nel caso di questo volume, di un italiano: Riccardo De Cal. Riccardo è un amico, quindi questa critica potrebbe essere tendenziosa o benevola. In verità conosco De Cal come regista di documentari e non come fotografo. Vedendo la qualità delle immagini dei suoi film e sapendo che ne ha cura lui stesso potevo esser certo che l’occhio fotografico ce l’avesse, ma finché non vedi non te ne rendi conto.
Quello che cercavo nella Venezia fotografata era una città sconosciuta, almeno ai miei occhi. Volevo vedere una città inedita e quella fotografata da De Cal è in buona parte inedita o almeno poco nota. Non mancano i luoghi più celebri perché Venezia è anche quei luoghi: piazza San Marco, la Basilica, Palazzo Ducale, Canal Grande. Ma sono i luoghi più nascosti che danno sapore a quelle foto: la Querini Stampalia, il Museo di Storia Naturale, un dettaglio della Fenice. I dettagli sono quelli che si notano meno in un luogo del genere, perché l’insieme è così surreale e straniante che la mente non riesce a elaborare altre informazioni. La mente si aggira stupefatta e sospesa fra le calli e le fondamenta veneziane. Un luogo così non può esistere. Eppure esiste.
Credo che parte della stupefazione che Venezia genera nel visitatore sia dovuta alla potente dose di surrealismo a cui lo espone: strade fatte di acqua, automobili che galleggiano, un silenzio perfetto rotto solo da voci isolate quasi perpetuo. Venezia è una capsula di realtà contenuta nella realtà fenomenica del mondo, ma è così diversa e unica da risultare incommensurabile e quindi incredibile.
Raramente faccio foto ai miei cari. Non riesco a fotografare mio padre o mia madre. Non so se per il timore di non render loro giustizia o perché li conosco bene (ci mancherebbe). O forse perché la fotografia svela più di quanto si vede a occhio nudo. Fotografare Venezia è un po’ come fotografare i propri cari: il rapporto è troppo intimo e si ha timore di svelarsi troppo. Per questo apprezzo ancora di più quanto è stato capace di fare De Cal. Ha fotografato anche le sue paure o i suoi più intimi pensieri. Ci sono foto invase dalla nebbia: una Venezia cancellata o poco leggibile, quasi una metafora di qualcosa di nebuloso e poco chiaro. O che si vuole cancellare. Una foto che mi piace è quella di piazza San Marco, anche se sembra impossibile poter vedere ancora una foto di piazza San Marco senza essere sopraffatti dalla noia. Invece questa San Marco non è solo invasa dalla nebbia: è obliata dalla nebbia. È quasi la negazione visiva di San Marco.
Nelle parole di chi ha scritto di Venezia in questo volume — nelle parole di molti, non di tutti — ho colto curiosamente più un riferimento a se stessi che alla città. Han parlato di Venezia parlando di quando ci andarono per la prima volta, di come la vissero da studenti o di come ci lavorarono. Han parlato di Venezia parlando di cosa aveva dato loro Venezia. Eran loro riflessi in Venezia stessa.
Del resto di Venezia non puoi parlare che di riflesso (è la città per antonomasia che contiene se stessa e il suo duplice, riflettendosi nelle sue acque). Ma non è solo doppia: è molteplice. Puoi visitarla a piedi lungo le calli. Puoi vederla dall’alto delle sue altane, ed è un’altra Venezia. Puoi navigarla in barca, ed è un’altra Venezia ancora.
Non sono variazioni sul tema, intendiamoci: sono altre partiture, diverse melodie. Ognuna parla a una parte diversa di ognuno di noi, o a tutte assieme. Parlare di Venezia in senso assoluto, come di un oggetto slegato dal nostro animo, è impossibile. Venezia ti svela perché la sua componente surreale ti mette a tuo agio: non è una città come le altre, puoi abbandonare le difese e lasciarti abbracciare da questa madre.
Ma è in quel momento che ti trovi solo a piazza San Marco o a guardare il bacino: sei nel tuo stesso sogno. Sei solo tu e Venezia che ora è una donna. Familiare e silenziosa. Non puoi che essere sincero con lei e le parole costruirebbero meccanismi falsi. La guardi e ti lasci guardare. Adesso la vedi per come è. Cerchi anche di fotografarla ma è quasi impossibile: non c’è niente di familiare in quelle case o in quelle vie. È tutto sovvertito, è tutto al posto sbagliato. La terra da cui nascono le case è liquida e tu galleggi miracolosamente. Venezia non dovrebbe esistere, eppure esiste. Tu non dovresti trovarti lì, ma lei ti accoglie.
Cosa ti ha detto Venezia?
Dovrebbero chiederti questo quando torni da Venezia. Non cosa hai visto, ma cosa ti ha sussurrato quella città. Cosa ti ha detto di te stesso. Cose dure, difficili, oneste, brutali forse?
Venezia ti ha detto quello che sei stato capace di ascoltare: ti ha preso le misure, ti ha detto quanto vali. Hai saputo sopportare il peso delle pietre che galleggiano? La tua logica cartesiana è ancora così salda?
Forse è stato tutto un sogno. Forse hai immaginato che antico e moderno potessero coesistere in uno stesso luogo. Che secoli diversi fossero solo figli di diverse età e la madre una sola: Venezia ti conosce. Puoi abbassare le difese: non stai sognando.