Il vulcanico nonché danese Bjarke Ingels e la sua ormai multinazionale dell’architettura BIG hanno presentato il progetto del Two World Trade Center. Esisteva già un progetto (non esaltante, ne convengo) fatto da Norman Foster ma la proprietà lo aveva definito più adatto ad una banca che a una Media Corporation. Dentro ci andrà infatti il quartier generale della News Corp. e della 21st Century Fox di Rupert Murdoch.
Insomma: Bjarke l’ha ridisegnato e ora la proprietà è contenta. Ma quando l’ho visto non ho potuto non pensare che una cosa così, anche se in scala molto più contenuta, l’avevo già vista e nemmeno troppo lontana da Ground Zero, anzi: parlo del New Museum di Sanaa.
L’idea delle scatole/volumi accatastati in maniera apparentemente casuale è la stessa. Cambiano naturalmente le dimensioni ma è innegabile che lo ricordi moltissimo.
Citazione o plagio?
Se è vero che i piccoli imitano e i grandi copiano, Bjarke è BIG anche in questo: forse non si è nemmeno curato dell’estrema somiglianza fra le due soluzioni. L’idea dello studio giapponese poi si adatta abbastanza bene al modo di progettare del danese: programmi funzionali apparentemente inattaccabili, soluzioni commerciali che fanno salivare qualsiasi immobiliarista, una indubbia capacità di persuasione e di cura delle relazioni pubbliche.
Bjarke è un fenomeno assoluto nel panorama dell’architettura: è molto bravo a comunicare, è affabile, a volte è capace di non sembrare nemmeno particolarmente intelligente (ma lo fa per calcolo), altre è semplicemente mansueto e tranquillizzante. Ma mansuete non lo sono di certe le sue architetture, in alcuni casi dei mostri da decine di migliaia di metri cubi che sono tutto meno che non impattanti.
Eppure lui vince concorsi poderosi con una facilità incredibile, costruisce ancora di più e cose ancor più grandi. E ha solo 40 anni.
Fugato ogni sospetto di odio e invidia che potrebbe aleggiare su di me in quanto collega e suo coetaneo (lo odio e lo invidio, infatti) (scherzo) (un po’ lo odio) (lo guardo con ammirazione e sospetto), proseguo.
Il punto di incontro
La carriera di Bjarke Ingels è iniziata poco dopo l’università con il suo collega e amico Julien de Smedt, conosciuto quando entrambi lavoravano da OMA di Rem Koolhaas. Assieme a lui fondò lo studio PLOT. Poi si divisero e da quel momento in poi Ingels letteralmente esplose: incarichi importanti con investitori danesi, costruzioni impensabili per un architetto così giovane, molti concorsi vinti e pochissimi persi.
Forse un seme della sua capacità di incontrare un certo gusto popolare (e commerciale) va ricercato in una sua antica passione: quella per il fumetto. Bjarke iniziò a studiare arte pensando di fare proprio quello, cioè disegnare fumetti. Una forma espressiva a cavallo fra l’arte aulica e quella popolare, basata su storie accessibili o fantastiche narrate con raffinata sapienza grafica.
E non è nemmeno casuale che Yes is More, il suo libro-manifesto pubblicato nel 2009, sia un libro illustrato: è come se con questa forma espressiva lui avesse voluto chiudere una pagina formativa del passato per aprire quella del futuro: una visione grandiosa dell’architettura. Megalomane, a volte. Molto ardita e sfrontata, sempre.
In quell’anno Ingels aveva 34 anni. Una carriera già avviata ed edifici importanti già realizzati.
Per quanto potesse apparire dimesso nella forma espressiva (i libri teorici degli architetti sembrano normalmente più dei libri teorici, appunto: testi, parole complicate, grandi enunciati, visioni comunicate con disegni puntigliosi e scientifici), Yes is More era un libro che enunciava già con chiarezza il programma che Bjarke aveva in testa: un programma poi messo alla prova e verificato negli anni a seguire. Le idee c’erano — magari non tutte sue, magari prese in prestito — ma di certo suo era il modo di comunicarle. Bjarke ha sempre avuto un pubblico vasto ed eterogeneo come interlocutore, non di certe i suoi colleghi. A lui non interessa parlare agli architetti — molti dei quali lo guardano poi con invidia e sospetto: a lui interessa parlare alla gente.
Lui comunica bene, in maniera pop: può spiegare il più indigeribile progetto alla massaia di Voghera mentre di spiegarlo alla RIBA forse non gli interessa più di tanto.
Non ci sono altre soluzioni
BIG illustra tutti i suoi progetti attraverso diagrammi che seguono sempre uno sviluppo preciso:
- Il sito
- Idea tradizionale
- Proviamo a movimentare le cose
- Oh guarda come funziona bene col soleggiamento
- Giriamolo un po’ così anche i collegamenti infrastrutturali funzionano meglio
- Ecco la soluzione:
Ingels è estremamente assertivo nello spiegare i progetti: l’utilizzo di diagrammi, semplificando all’estremo la situazione esistente e mostrando la proposta di progetto come un semplice disegno — quasi un fumetto (e non è ovviamente un caso) ha il vantaggio di eliminare moltissimi accidenti reali: se la comprensione è facilitata, anche la soluzione proposta sarà più facilmente accettata. Rappresentata poi in tal modo darà la netta impressione che non esistano semplicemente altre soluzioni. I suoi progetti sono come equazioni, operazioni matematiche che hanno un unico risultato, quello che lui sa trovare.
Bjarke Ingels sa essere estremamente assertivo.
Il metodo BIG di illustrare i progetti è evidentemente sempre risultato molto efficace con i clienti e sfrutta infatti molti aspetti del marketing:
È comunicato in maniera semplice e intuitiva (Ingels utilizza raramente le piante per illustrare un progetto e, se le usa, le semplifica fino a diagrammarle) attraverso modelli essenziali che fanno sembrare architetture complessissime dei giocattoli smontabili, impilabili, deformabili.
Indugia solo sugli aspetti positivi e sui vantaggi che il progetto avrebbe e minimizza fino a farli scomparire quelli negativi non si misura con alcuna preesistenza (vi è da dire che in molti casi BIG ha operato in contesti indifferenti a nuovi inserimenti moderni) e quindi non può mai essere valutato con metriche note agli interlocutori è sempre basato sull’insistenza su aspetti che lo rendono preferibile ad ogni altra soluzione: ogni suo progetto è sostenibile, innovativo, ad impatto zero, autosufficiente è illustrato con render accattivanti e commerciali: persone felici che non stanno in ufficio chini su una scrivania, ma che in ufficio giocano a basket, gente che passeggia sorridente, mamme, bambini ecc.
Il risultato è che BIG, con scaltrezza e di certo molta intelligenza, in ogni progetto che ha sviluppato è stato in grado di essere convincente. Come? Miscelando questi ingredienti ed illustrandoli sempre nello stesso modo.
Creando un Metodo BIG: Semplifica, Minimizza le criticità, usa un Linguaggio semplice, insisti sui fattori X, elevali alla potenza XL.
Non a caso uso queste lettere, perché sono anche il titolo di un libro del suo più importante mentore, ossia Rem Koolhaas: “S, M, L, XL”, altro libro manifesto a sua volta in alcune parti a fumetto che di certo l’ha ispirato. E continua a farlo.
Fino ai giorni nostri
Tutta questa premessa porta al punto da dove ero partito: il progetto per il Two World Trade Center. Illustrato con le stesse tecniche ma con un packaging un po’ diverso: un video in cui lo stesso Bjarke Ingels racconta quali sono stati i principi ispiratori. E qui sorge qualche problema.
Ripete insistentemente che il Two World Trade Center rappresenta la realizzazione plastica delle linee orizzontali che incontrano le verticali (qualsiasi cosa significhi) e che è stato ispirato nel disegnarlo al blocco edilizio tipico di alcune parti di New York. Una New York più urbana e antica — quella di TriBeCa — e una più moderna, cioè il distretto finanziario di Ground Zero.
Cosa c’entrano queste New York con il progetto? Secondo questo diagramma la parte “scalare” in prospettiva ricorderebbe TriBeCa, mentre quella verticale sarebbe un classico grattacielo. Quindi l’idea di base è di mettere assieme due cose che hanno scale non rapportabili, stretchandole con un photoshop portato ai limiti. Ok.
Il progetto non ha incontrato il favore della comunità degli architetti.
Al di là della sua oggettiva banalità estetica, sembra l’esito di un approfondimento molto superficiale: tipo la prima idea che gli è venuta in mente (e nemmeno tanto originale) esposta frettolosamente, tanto che nemmeno i notevoli render riescono a nasconderne la povertà concettuale. 7 scatole impilate l’una sull’altra, le prime due delle quali già destinate a News Corporation e 21st Century Fox e le altre da destinarsi. Terrazze-giardino negli arretramenti delle scatole, vetro ovunque.
Ma soffermiamoci un attimo sulle terrazze: a 200–300 metri d’altezza fa un freddo mortale in inverno e tira un vento letale quasi sempre. Bjarke ha giustamente pensato di dotarle di alti parapetti/paravento. Immagino comunque il clima gradevolissimo che ci sarà.
BIG Industries
Da quando ha aperto uno studio a New York, Ingels ha trasformato il suo studio in un’industria. Alle decine di progetti in lavorazione negli anni precedenti se ne sono aggiunte altre decine. Sembra inevitabile che una sola mente non possa essere sempre originale e innovativa avendo così tanto lavoro da fare e i risultati potrebbero anche essere questi: cose non tanto nuove e ripetizioni. Del resto anche Rossini si ripeteva, citandosi. Solo Mozart e Bach non lo fecero quasi mai, ma di geni del genere ne nascono pochi ogni secolo.
La bellezza matematica
Vi è un’estetica in alcune soluzioni matematiche, una precisa sovrapposizione fra il risultato e il metodo con cui è stato ottenuto. Un’armonia che non può non essere visibile. La matematica può essere una materia estremamente estetica, in sé e nei risultati che ottiene.
Il modo di esporre e di lavorare di Bjarke Ingels è ispirato alla matematica. Solo ispirato, perché ne usa la forma di rappresentazione per veicolare l’idea che il risultato ottenuto sia uno e solo uno, mentre in architettura non vi è niente di meno univoco e risolutivo di una idea progettuale.
I progetti di architettura risolvono alcuni problemi e ne creano altri. Essendo radicati nella realtà non risolvono tutto perché non potrebbero.
Così gran parte di quello che ha progettato e realizzato Ingels non è esteticamente bello. L’estetica sembra non interessarlo nemmeno tanto, così come non interessa a Rem Koolhaas.
Eppure progettare uno dei più importanti edifici del mondo in una delle più importanti città del mondo dovrebbe porre almeno qualche scrupolo. Lo facciamo anche bello?
Basta percorrere l’8th Street per vedere il New York Times Building di Renzo Piano: un grattacielo di grande eleganza che non ha la pretesa di sembrare altro che un grattacielo. Ma bello. Misurato e vagamente misterioso. Forse non popolare come sarà il Two World Trade Center ma pazienza.
La bellezza salverà il mondo, si dice così no?