Adesso dico una cosa. Dico che l’arte concettuale è un’arte borghese.
Borghese per due motivi:
- Perché la comprano i borghesi (anzi: ci investono su)
- Perché da loro l’impressione di capire l’arte, e spesso è vero.
L’ho capito indirettamente, mentre visitavo Italics a Palazzo Grassi a Venezia. Delle opere esposte ne ho un ricordo purtroppo nebuloso, mentre è ancora vivo in me il senso di panico – preciso e terrorizzante – che le allegre scorribande di mio figlio tra quei pezzi molto costosi mi provocava. Ho passato il tempo ad evitare che il piccoletto si ritrovasse con un padre costretto a pagare a rate un’opera di arte concettuale – o d’arte povera, o della transavanguardia, mettetela come vi pare – danneggiata in una spensierata domenica d’ottobre. Ho capito che la soglia d’accesso – come dire – dell’arte concettuale è diversa e più facilmente valicabile di quella dell’arte aulica, dell’Arte. Mio figlio, o un qualsiasi altro bambino, non visita una mostra del genere con qualche tonnellata di sovrastrutture concettuali e culturali sulle spalle: se non vede quadri, vede oggetti più o meno famigliari, più o meno … oggetti. Ne riconosce una vaga famigliarità e trascende inconsciamente la soglia d’accesso. Soglia che è ben chiara nel caso di un quadro (è appeso: va ammirato così, guardato, a deferente distanza), molto meno nel caso di peluche di ragni blu grandi come un uomo o di grondaie ricolme di pigmenti in polvere. Non è un salto concettuale indifferente: l’oggetto artistico è facilmente individuabile (il quadro, la scultura), mentre quello concettuale è più sfumato, fino ad essere impercettibile.
E qui: l’epifania. E’ come se i ricchi collezionisti – come Pinault di Palazzo Grassi – comprassero ciò che gli è affine. Il che non è un giudizio di valore. Non significa che quell’arte sia migliore o peggiore. Ho solo il sospetto che sia più comprensibile. In quanto concettuale è parte del dominio razionale, e lo spirituale lo lasciamo alle anime belle, ammesso che l’arte debba pure essere tale. Trascendentale.
Ora: da razionalista puro – per non dire positivista con qualche venatura spirituale – colgo pur sempre certi dettagli: che un’opera d’arte è quasi inesplicabile, mentre un’opera d’arte concettuale esiste solo (acquista significato) quando il concetto è esplicito. Comprensibile, quasi razionale. Trascende poco o punto. Sta spesso al confine fra ragione e spirito, ma è illuminata da un riverbero che la deve contestualizzare, che la storicizza. Come se avesse un significato se collocata su uno sfondo, in un contesto.
La lecita domanda che sorge è: sapendo ciò che resta della Flagellazione di Piero della Francesca (tanto), cosa resterà di opere cui ci si accosta più con spirito di partecipazione per la loro fragilità (video installazioni di cui si pensa solo che ne sarà di loro quando il formato digitale o analogico in cui son state girate sarà obsoleto)? Cosa resterà?
Una riflessione più profonda, ma rimasta senza risposta è infatti: quale dimensione temporale hanno certe opere? Quanto dureranno? Ma poi: son fatte forse per durare?
All’uomo moderno non sembra interessare l’eternità: ha perso fiducia o forse interesse per una certa dimensione temporale dilatata: tutto deve essere qui e subito. Guadagni e ricavi. Comprensibilità. Nel breve periodo. Le cose succedono sempre più rapidamente (ogni giorno ce ne accorgiamo) e l’orizzonte temporale si avvicina sempre più.
Ce l’abbiamo davanti al naso, a un palmo dal naso. Oltre c’è la nebbia. Dobbiamo capire e andare avanti. Avere l’impressione di capire e non abbandonarci all’incertezza di un folgorazione di chiara natura spirituale: sotterranea, potente, difficilmente coglibile. Non c’è tempo per fermarsi davanti a un quadro: c’è il tempo per girare attorno ad un ragno di peluche oppure per leggere lapidi con scritto “Io sono il migliore”, sorridere sornioni perché si è colto il barlume dell’artista. Si è stati partecipi di un’illuminazione intellettuale (poco o affatto spirituale) e ci si è avviati oltre. Alla prossima sala, a rincorrere e placcare il piccoletto che potrebbe danneggiare quel delicato castello di carte posato in quell’angolo, sul pavimento: è lì che deve osservato, è quella l’altezza giusta: a tiro di calcio di un bambino.